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A CUBA STANNO PROSPERANDO
I FIGLI ILLEGITTIMI DELLA REVOLUCION
MIMMO CANDITO
Andrés si dice “abbastanza soddisfatto”. Aveva cominciato
qualche anno fa con una vecchia poltrona e uno specchio, ora ha due specchi e
due poltrone (una è anche quasi nuova). Andrés taglia capelli e rade barbe in
una strada affollata di Centro Habana, raddoppiare in due anni le dotazioni
della “peluqerìa” non è un risultato da poco, in un'isola dove il tempo pare
spesso ingessarsi, imprigionato dentro rigidità che la Revoluciòn esige a
difesa della propria sopravvivenza.
Ma Andrés lo sa bene, che Cuba non è più quella che era,
anche se l'icona immortale del “Che” vigila ancora sulla grande piazza e si
chiama sempre Castro quello che dirige l'orchestra della storia nazionale. I
giorni passano lenti, all'Avana, il sole rosso e la pioggia larga dettano a
stento un calendario che pare anch'esso imposto dal regime, e allora
arrangiarsi resta comunque la migliore arte nazionale, quella nella quale
fantasia talento e pigra spregiudicatezza forgiano comunque una soluzione
possibile. “Resolver” è il verbo che si coniuga come un imperativo quotidiano,
e lo si incontra a ogni angolo di strada, indifferente alla cappa calda e umida
delle grandi nubi che traversano il cielo del Caribe.
Sono incontri che fino a qualche anno manco te li sognavi,
che guai a pensare di rompere il monopolio dell'economia tenuto stretto dentro
le mani forti del regime. Finivi diritto in galera, e perdevi il futuro. Poi
arrivò la rivoluzione della Rivoluzione, che naturalmente aveva un altro nome
ma quello, comunque, voleva dire: che ora si cambiava, e che niente era più
come prima anche se tutto restava com'era sempre stato. Cominciò nel 2008 però
ebbe una sua formalizzazione 2 anni fa, e come nella Cina di Deng (ma è lo
stesso in questa di Xi Jinping) anche all'Avana è stato il rituale liturgico
del congresso del Partito comunista ad aprire il grande portone del
cambiamento. Il corpaccione dello Stato che tutto fa e tutto controlla si
sfaldava sotto le parole nuove del fratello di Fidel, e un orizzonte possibile
si fece vedere al di là delle caute ombreggiature ufficiali. In
quell'orizzonte, un milione di lavoratori pubblici veniva spedito a casa,
licenziato di brutto dalle sue eterne sicurezze, e in cambio gli veniva imposto
d'imparare a nuotare. O nuotare o affogare.
E nuotare voleva dire mettersi in proprio, inventarsi un
mestiere e provare a campare senza la sicurezza del salario a fine mese. Sono i
“cuentapropistas”, i nuovi figli illegittimi della vecchia rivoluzione
imbolsita. Carmelo Mesa-Largo, uno dei più attenti economisti che da Miami
seguono la storia della Cuba castrista, traccia otto cicli che si alternano in
questa storia ch'è lunga ormai mezzo secolo, quattro cicli li chiama
“idealisti” e quattro “pragmatici”, una sorta di pendolo che si sposta e
dondola seguendo una volta le pressioni della vecchia guardia conservatrice e
una volta la necessità di aprire la cassaforte del paese alle esigenze d'una
economia in evidente asfissia di capitali. Ora siamo nell'ultimo ciclo
“pragmatico”, quello dove la
Revoluciòn mette un po' da parte le sue bandiere ideologiche
e lascia spazio al mercato, “ma uno spazio mai così ampio come questa volta”,
dice il professore, che ha appena scritto un libro nel quale Raùl non è più “il
fratello di” ma si è meritato ora un titolo tutto suo, Raùl e basta.
Andrès però, al telefono da laggiù, non ama molto parlare di
politica e di strategie; diciamo per lui che i fatti, a raccontarli, sono meno
compromettenti delle idee, e dei giudizi. I gattopardi dell'Avana hanno
conservato intatto il loro strumentario repressivo, “adelante” sì, d'accordo,
ma “con juicio”, con tanto juicio; e poi la Revoluciòn è comunque
un mito che resta tuttora ben piantato nel cuore dell'isola, come una identità
comune, condivisa con un sentimento profondo e la cui crisi, al massimo, viene
imputata al tradimento d'una Nomenclatura sclerotizzata, che difende la propria
continuità più che lo spirito di un antico progetto. E sarebbe proprio l'ora di
finirla lì. Ma il tempo di Cuba è pigro, a cambiar pelle ci si mette sempre del
tempo, e le cose si consumano lentamente nella vita quotidiana dell'isola.
E allora, Andrès preferisce raccontare di suo zio Julio, che
ora fa anche lui il cuentapropista ed è uno dei tanti ex servitori dello Stato
che oggi se ne stanno piazzati agli angoli delle strade a fare il nuovo
mestiere d'ambulante; e non solo in centro, anche se il tranquillo quartiere
del Vedado è quello che gli offre i migliori guadagni. Ha un carrettino, sul
quale espone frutta e generi alimentari e ci campa su. La licenza di vendita,
allo zio, è costata soltanto 50 pesos - che non è una gran somma, dice Andrés -
anche se lo stipendio che, prima, lo zio prendeva dallo Stato era poco meno di
500 pesos. Julio era nei quadri del Ministero dello zucchero, che è stato uno
dei più flagellati dalla “actualizaciòn del modelo” (nome ufficiale delle
riforme che denudano il gigantesco impianto centralizzato delle politiche
governative), e ha dovuto mollare la sua solida poltrona e mettersi in strada,
“con la zia che piangeva che chissà come ce la saremmo cavata”.
In realtà, la “actualizaciòn” prevedeva freddamente che a
essere espulso dalla nicchia confortante del lavoro statale fosse, entro il
2015, un milione di pubblici dipendenti, e che nel corso del tempo l'intera
macchina pubblica si sarebbe poi dovuta smagrire addirittura del 33 per cento;
sogni caraibici: oggi i numeri dicono spietati che l'esodo si è arrestato su
quei primi 400mila che hanno accompagnato in strada il vecchio tìo Julio, e
pare proprio che non si riesca ad andare oltre. Anche i gattopardi
sonnecchiano, a Cuba.
Quando Raùl decise ch'era tempo di cambiare per non finire
sepolti sotto le macerie d'una rivoluzione dove la “spinta propulsiva”s'era
esaurita ormai da tempo, il piano delle riforme elencava ben 178 possibili
licenze di lavoro privatizzato; e c'era di tutto, dall'antennista al taxista,
dal venditore ambulante di prodotti agricoli all'affittacamere, al gelataio, al
venditore di Cd, all'operatore di apparecchiature per l'intrattenimento
pubblico. Una rivoluzione diffusa, insomma, dove l'inventiva ch'è la dote
maggiore dei cubani potesse liberare tutte le proprie irriverenti potenzialità.
E per molti non è andata affatto male: Andrès dice che “el tìo” riesce ad
acchiappare fino a 130 pesos al giorno, con un bilancio annuale non lontano dai
40.000 pesos, ch'è un gruzzolo ben più sostanzioso dei 6.400 pesos che prima
gli passavo lo Stato. “E la zia ora è contenta, e non si preoccupa più”.
Andrès compra la sua merce dai contadini (c'è stata una
larga redistribuzione di terre incolte ai “campesinos”) o anche dai negozi
statali, e naturalmente deve fare un ricarico che gli consenta un buon margine
di guadagno: i fagioli neri (che a Cuba sono come per noi gli spaghetti) li
vende a un terzo in più del prezzo ufficiale, e così anche la carne di maiale,
che invece dei 56 pesos al chilo viene in vendita a 70. Naturalmente, deve
pagarci su le tasse: sono poco più di 2.500 pesos l'anno, “e non va male”. Solo
che la corruzione sta nelle vene del regime, e per poter lavorare lo zio Julio
deve pagare “ogni tanto” una multa di 180 pesos agli ispettori della polizia:
sono multe, diciamo, discrezionali, che non sempre finiscono davvero nelle
casse dello Stato. Ma la burocrazia ha i suoi costi, e comunque anche gli
ispettori della polizia devono poter campare.
Sta nascendo una nuova classe media, abborracciata, legata
spesso ai guadagni spropositati del settore turistico, sempre in bilico sulle
contraddizioni d'un sistema monetario duale (1 peso vale 1 dollaro, ma poi nei
fatti ce ne vogliono 25), costretta a navigare dentro le timidezze pavide d'un
regime che vorrebbe cambiare senza però rimetterci il potere. Le prospettive
sono buone ma incerte, come i venti veloci del Caribe che spostano le grandi
nuvole ancorate ai cieli dell'isola d'un comunismo che non ce la fa più.
Ps. Anche senza cognome, Andrés e Julio sono nomi finti.
Troppi guai potrebbero piombargli addosso, se fossero identità riconoscibili
dalla polizia cubana.
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