ALEJANDRO ARMENGOL. L’ETÀ E IL LEADER
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27 aprile 2013
traduzione/adattamento e riduzione a cura di Yordan Fuentes
De Arnaiz della redazione di Nuovacuba
Alejandro Armengol. CUBAENCUENTRO
Nel raccontare il suo tour dell’Unione Sovietica e dei paesi
socialisti nel 1957, García Márquez ha scritto: “Non aveva età. Quando morì,
aveva più di settanta anni, aveva la testa bianca e cominciavano a rivelarsi i
sintomi del suo esaurimento fisico. Nella fantasia del popolo Stalin, tuttavia
aveva l’età dei suoi ritratti. Loro avevano imposto una presenza senza tempo,
anche nei villaggi remoti della tundra “*. Fidel Castro ha perso questo
privilegio.
Negli ultimi anni i cubani hanno assistito a una situazione
anomala: manifesti e murales continuano a mostrare un’immagine potente di un
leader che per decenni li aveva guidati, mentre occasionalmente compaiono foto
e video di un vecchio debole e vacillante, che per restare in piedi ha sempre
bisogno del supporto di un giovane assistente – più un sostegno che una guardia
del corpo.
Nel tentativo di ottenere il cibo quotidiano, rimane poco
tempo per fermarsi a pensare per un momento al contrasto tra quella figura
deteriorata e il fratello minore – una differenza di pochi anni ha fatto una
differenza enorme – il quale è riuscito a invecchiare in modo lento e sembrare
di essere in condizioni fisiche e mentali ottime. La malattia ha fatto a Fidel
Castro una delle peggiori manovre che avrebbe potuto immaginare: non l’ha
ucciso, semplicemente si è intrattenuta nel distruggerlo abbastanza da farlo
diventare un residuo di un’altra epoca.
Se il leader è riuscito a superarsi abbastanza per non
nascondersi completamente dalla vista del pubblico, è per la sua dipendenza
dalla vita e per un residuo di vanità che lo costringe a ricordarci ogni tanto
che è ancora vivo. In parte a causa di un interesse a preservare l’illusione
rimane la guida di un sistema che ogni giorno trascorso assomiglia di meno a
quello che era. In parte, per un aggrapparsi non solo al passato, ma al
presente: esiste, non tutto è perduto. Il resto è l’attesa inevitabile della
morte.
È vero che quest’attesa è anche una sua piccola vittoria.
Ogni volta che qualcuno muore intorno a lui (l’ultimo è stato Alfredo
Guevara**), si pone la domanda o il lamento per la sua permanenza.
Questa permanenza, tuttavia, si definisce di più da quei
manifesti – danneggiati in molte occasioni e a volte restaurati – dove prevale
il ricordo. Se la sua definizione maggiore rimane intatta, quell’aggrapparsi al
potere che l’ha caratterizzato per decenni, è viva grazie al fratello. Senza di
lui, il quale molte volte relegò da un lato e altre disprezzò, ma mai
abbastanza per rimuoverlo dal suo fianco, non sarebbe più che un oggetto di
studio, di repulsione o ammirazione.
Raul Castro è diventato il potere che preserva il regime
introdotto il primo di gennaio, e quindi
è custode del suo vecchio fratello.
Questa dicotomia schizofrenica, comunque, tra l’onnipotente
capo che era Fidel Castro, e il vecchio il cui più grande successo di
quest’anno è stato l’aperta una scuola, non nasconde una realtà: l’unico vero
atto resta da scontare, da osservare in tutto la mondo è la famosa notizia
mille volte annunciata. Un funerale in pompa magna: una rivoluzione già morta,
che alla fine sarà definita in una cerimonia funebre. Il cerchio si chiude,
dall’ideologia allo spettacolo.
Decostruire Castro
Da qualche tempo Fidel Castro si sta decostruendo. Negli
ultimi anni abbiamo visto – con rassegnazione o entusiasmo – a questo processo
in cui una figura leggendaria si fu gradualmente spogliando dal mito, un eterno
guerrigliero diventato un nonno familiare, quasi indifeso, un uomo politico
abile perso in frasi quasi incoerenti. Ma attenzione, nulla di ciò che fa
questa figura che per tanti anni ha causato paure, speranze e odi è spontaneo o
libero. Nemmeno adesso, quando siamo testimoni del suo declino.
Castro non si è ritirato, ma è stato lasciato fuori. Egli sa
che il suo parere conta ancora e che non si può negare la sua influenza, ma gli
anni hanno dimostrato che la sua partenza in un primo momento non significherà
una catastrofe per il mantenimento della classe dirigente, bensì la fine di
un’era. Un finale più per nostalgia che per la conservazione, per ora, del
governo che ha istituito e che sopravviverà. Sarà così se non muore prima il
vero sostegno del sistema, suo fratello.
Siamo stati spettatori o complici di quest’uscita di scena,
che può durare ancora per un certo tempo o improvvisamente essere interrotta.
Da anni egli lo sa, e ha preso una decisione al riguardo.
Tra il potere e la vita ha deciso per la seconda. Ha scelto di resistere e si è
aggrappato a essa, al prezzo di sacrificare tutto o quasi tutto.
Per un po’ è tornato alle sue origini, non mediante il
ricordo, ma attraverso la narrazione del ricordo. Quell’Alessandro, che ha
inseguito con un nome ripetuto in documenti e nei figli, finché ha assunto il
non essere niente di più di questo: un nome, appena un ideale, ma mai un
modello, mai uno stile di vita. Morire giovane non è mai entrato nei suoi
piani. Nemmeno abbandonare completamente il potere, anche se ha solo le forze
per l’inaugurazione mediocre di una scuola insignificante in un comune.
Così la storia va bene per il ricordo giornaliero, in un
giornale in cui la cronaca quotidiana è un travisamento o una menzogna, mentre
non si abbandona lo spazio dedicato a quello che era.
Fidel Castro è stato in grado di adattarsi a qualsiasi
circostanza. Se il prezzo è troppo alto, non occorre pagarlo. Alessandro Magno
va bene per i libri di storia. Che ci crediate o no, la sua capacità in questo
senso è molto limitata. La vita vale ancora la pena, nonostante l’umiliazione
della malattia, l’oltraggio dell’età e le delusioni del corpo. C’è solo bisogno
di adattarsi alle circostanze, adattarsi ai tempi, per salvare ciò che può
ancora essere salvato.
Quello che vale la pena di essere salvato si riassume in
aspetti molto specifici. Prima, la continuità del processo. Salvarla non per
una fede assurda nel futuro ma per un’utilità pratica. Contribuire a questa
continuità è stato il suo compito principale da quando si è ammalato:
dimostrare che lui è vivo e che è ancora lì.
Per un certo periodo si è rifuggiato nella scrittura,
nell’idea che la sua presenza era necessaria per far sì che tutto rimanesse
uguale o per quello che cambiasse non influisse sulla permanenza del suo
mandato delegato al fratello. Un mandato che poteva prescindere
dall’interferire in tutti gli aspetti della vita quotidiana dei cubani, ma che
ancora non riusciva a rinunciare alla sua presenza. Il suo ultimo atto pubblico
di reale importanza è stato la sua partecipazione a quest’ultimo periodo
dell’Assemblea Nazionale del Potere Popolare. Dove all’apparenza è stata decisa
la successione al di là della sua famiglia e dei suoi più stretti seguaci. Gli
“storici” che sono stati anche gradualmente messi da parte, tranne che i
principali comandanti militari che rimangono il pilastro dell’attuale
stabilità.
Il secondo è stato un processo di simboli, d’immagini che
sono state sfruttate appieno per decine di anni. La popolazione è stata
preparata per accettare questo nuovo ruolo: da guerrigliero a vecchio saggio,
da statista a consigliere, da invulnerabile a fragile. C’è voluto un po’, e
questo è ciò che è stato sapientemente costruito dal regime dell’Avana: senza
soprassalti, ma senza svegliare chi sogna a occhi aperti. I continui
riferimenti all’età, circa i troppi sforzi fisici di una volta, che in modo
inesorabile ora ha dovuto scontare chi sembrava invincibile. Rimanendo,
tuttavia, un sopravvissuto come ai vecchi tempi della guerriglia. Ma
soprattutto, si è imposto il non dare luogo alla possibilità della sconfitta.
Non è un destino stoico, un’uscita eroica o una immolazione. Come simbolo di
devozione per l’ideale rivoluzionario basta il Che. Non importa se sono i suoi
resti o meno quelli sepolti in Santa Clara. Basta che nell’isola ci sia il tesoro
della sua immagine. Tutto il resto è secondario.
(…)
Mai un nemico teoricamente debole ha vinto così tanto con
così poco. È stato in grado di intrattenere annoiando. Quando venne a sapere
che quel lavoro non era più necessario, si è fermato. Non ha mai avuto una vera
vocazione di scrittore.
Dopo la sua malattia e guarigione, la battaglia ha cambiato
direzione: non era d’idee, ma d’immagini.
Giocare l’asso del passato ha definito per molti anni
l’unica strategia visibile dell’esilio. Da questo punto di vista, s’intende
l’incapacità di capire cosa sta succedendo a Cuba. Il famoso slogan “No Castro,
no problem”, ha dimostrato di essere molto più di un adesivo appariscente di
mettere sulla propria auto.
La vera questione, allora, alla quale quotidianamente si sfuggiva
a Miami, era semplice: com’è possibile che ancora quella figura fragile
garantisca la permanenza di un regime? La risposta difficile inizia con il
riconoscere, che qualcosa di più di un leader in declino ha avuto un ruolo
nella sopravvivenza di un sistema. La cosa importante non è solamente risolvere
questa questione ma ancora di più importante è un’altra: E adesso? Nell’esilio,
dove era davvero poco quello che si poteva fare, ma peggio ancora ci si
nascondeva dietro questa scusa per non fare nulla, tutto si limitava a
commentari d’occasione, senza provare almeno la possibilità di una risposta
diversa, una nuova strategia.
Ora la realtà è che Miami e Cuba, sono entrate in una fase
in cui la geografia, più che la politica comincia a definire lo scenario, un
terreno diffuso in cui i nuovi immigrati che arrivano ogni giorno lavorano per
poter il più rapidamente possibile tornare all’isola e mantenere chi vi è rimasto. Non si tratta di essere contro
i viaggi e le rimesse, ma di riconoscere una situazione imposta dall’Avana.
Nel frattempo, i cubani si sono abituati anche a questa
dualità d’immagini che sono il riflesso di una transizione pianificata dalla
Piazza della Rivoluzione: guerrigliero eroico nei manifesti e un vecchio da
applaudire e venerare due o tre volte l’anno. Non importano molto apparizioni o
manifesti: entrambi hanno servito al loro scopo.
* García Márquez, G., “90 días en la Cortina de Hierro. IX. En
el Mausoleo de la plaza Roja Stalin duerme sin remordimientos”, Cromos, 2, 206,
21 Septiembre 1959
** Alfredo Guevara intellettuale cubano filo governativo
morto di recente ultra ottantenne.