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venerdì 28 giugno 2013

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L’umorismo come esorcismo



YOANI SANCHEZ
Ero appoggiata al finestrino e facevo attenzione. Il vetro mostrava una vistosa incrinatura e a ogni scossone sembrava che dovesse cadere a pezzi. Per alcuni minuti, lungo il viale percorso dal taxi collettivo, mi ero imposta un esercizio di aritmetica: contare per strada tutte le persone che sorridevano. Nel primo tratto, tra avenida Rancho Boyeros e il cinema Maravillas, non ho visto nessuno. Una signora mostrava i denti non per allegria ma per colpa del sole, che le disegnava una smorfia composta da occhi socchiusi e labbra aperte. Un adolescente in uniforme da liceale gridava all’indirizzo di un collega. Non ho potuto sentire a causa del rumore del motore, ma le sue parole non contenevano alcuna battuta umoristica. All’altezza di Piazza Cuatro Caminos una coppietta ferma a un crocevia si baciava con passione, ma neppure in questo caso si notavano atteggiamenti giocosi. Tutt’altro. Era un bacio carnivoro, vorace, rapace. Un bebè in carrozzina sembrava sul punto di sorridere… ma era soltanto uno sbadiglio. Arrivati al Parque de la Fraternidad avevo potuto contare solo tre risate, incluso quella di un poliziotto che si burlava del giovane che aveva ammanettato e fatto salire sulla camionetta.  

Ho fatto questo esperimento in diverse occasioni, per verificare se siamo davvero quel popolo sorridente di cui parlano tanti stereotipi. Nella maggior parte dei casi, il numero di coloro che esprimono un certo grado di allegria non ha superato le cinque persone in un tragitto che varia tra i 4 e i 10 chilometri. Certo, questo non prova niente, ma è vero che nelle circostanze quotidiane le risate non sono così abbondanti come vogliono farci credere. In ogni caso restiamo un popolo dotato di molto senso dell’umorismo. Ma l’ilarità è una scialuppa di salvataggio che ci riscatta dal naufragio della depressione più che una caratteristica del nostro carattere. Ridiamo per non piangere, per non picchiare, per non uccidere. Ridiamo per dimenticare, fuggire, tacere. Per questo, quando assistiamo a uno spettacolo comico capace di far vibrare tutte le corde dolorose del nostro umorismo, è come se si aprissero le valvole di scarico e tutta la calzada 10 de Octubre cominciasse a ridere, inclusi gli edifici, i lampioni e i semafori.  

Venerdì scorso è successo qualcosa di simile durante lo spettacolo “De doime son los cantantes” che l’attore Osvaldo Doimeadios ci ha regalato nella sala del Karl Marx. L’umorista ha reso omaggio al nostro miglior teatro vernacolare esibendosi in magistrali interpretazioni e monologhi. Le penurie economiche, la riforma migratoria, gli eccessivi controlli sul lavoro privato, gli episodi di scandalosa corruzione collegati al cavo di fibra ottica sono stati alcuni tra gli argomenti che hanno strappato il maggior numero di risate. Ridiamo dei nostri problemi e delle nostre miserie, ridiamo di noi stessi. Finita la distrazione, il pubblico si è accalcato nei caldi corridoi per guadagnare l’uscita. Fuori, la calle Primera era affollata nonostante fosse notte. Ho preso un autobus per tornare a casa e mi sono affacciata al finestrino… nessuno sorrideva. L’umorismo era rimasto nelle poltrone e sul palcoscenico, eravamo tornati alla sobria realtà.  

Gordiano Lupi  



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I legami tra le forze produttive



YOANI SANCHEZ
Lo stesso giorno in cui Marino Murillo è comparso in televisione per illustrare la potenziale prosperità del modello economico cubano, la segretaria del Partito Comunista di un municipio di Pinar del Río incontrava con urgenza diversi contadini. L’assemblea ha avuto luogo nella località di San Juan y Martínez e si è focalizzata sullo stato di emergenza agricola in cui versa il paese. Tra le altre cose, la funzionaria ha chiesto ai cooperativisti della zona - dediti soprattutto alla coltivazione di tabacco - di seminare più frumento e tuberi. “Il paese attraversa una situazione di crisi alimentare” ha detto, senza provocare particolare agitazione nell’uditorio, perché il cubano medio non ricorda situazione diversa da crisi, angoscia e collasso cronico. “Cominciate a seminare che dopo arriveranno le risorse…”, si è affrettata a dire di fronte a persone abituate ad ascoltare il canto delle sirene sotto forma di promesse incompiute.  

Rapidamente l’assemblea ha cambiato direzione e i convocati hanno cominciato a inserire in agenda altri argomenti. Sono piovute subito le lamentele. Un produttore di frutta ha spiegato tutti gli impedimenti per stipulare un contratto direttamente con l’azienda La Conchita e poter così commercializzare le sue guayaba e i suoi manghi. Adesso non può farlo, perché deve vendere la produzione all’impresa statale Acopio che a sua volta ha il compito di somministrarla alla fabbrica di conserve e marmellate. L’intermediario ufficiale esiste ancora e si prende il maggior guadagno, ha detto l’agricoltore. Inoltre, un rotolo di fil di ferro lungo 400 metri per recintare un campo a un’impresa agricola statale costa 80 pesos (3,30 USD); mentre il contadino membro di una cooperativa può arrivare a pagare per identica quantità dello stesso prodotto anche 600 pesos (25 USD). Un sacco di cemento - indispensabile per ampliare le strutture di un’azienda agricola - costa al massimo 20 pesos (0,83 USD) per una fattoria statale e 120 pesos (5 USD, prezzo al dettaglio, per il cooperativista.  

Quando i rapporti di produzione diventano una camicia di forza per lo sviluppo delle forze produttive vuol dire che è arrivato il momento di cambiarli. Questo recitava una conclusione marxista tra le più studiate sia al liceo che all’università. Per questo se confrontiamo le dichiarazioni di Marino Murillo con le testimonianze di diversi contadini e il disastro agricolo che ci circonda, dobbiamo solo concludere che l’attuale modello economico si comporta come un abbraccio mortale per lo sviluppo e la prosperità di Cuba. Non serve a molto che i funzionari ci dicano che tutto va bene, che tempi migliori e progresso sono dietro l’angolo. Se chi lavora i campi continua a essere bloccato da regole assurde, coloro che stabiliscono simili restrizioni devono togliersi di mezzo e lasciare il passo ad altri capaci di lavorare meglio.  


Traduzione di Gordiano Lupi  

mercoledì 19 giugno 2013

Tornare a Cuba

WENDY GUERRA, TORNARE A CUBA


«Ciao, sono all’aeroporto, sono arrivata ma mi stanno per pesare e forse aprire le valigie. Mi potete aspettare con calma per favore? Qui va per le lunghe e devo spegnere il cellulare.»
È l’attacco inequivocabile dei rientri a Cuba. Sembrava che tutto fosse cambiato, ad alcune persone nemmeno le pesano, invece no, questo mese, entrando all’Avana, è successo a tre dei miei colleghi.
Anche se arrivi entusiasta, con la voglia di creare, pazzo per la gioia di ritrovare Cuba, vieni subito disarmato nel ‘raccontami vita, morte e miracoli’ dell’aeroporto. È la dogana, il luogo in cui gli impiegati dimenticano di essere cubani come te, con le stesse mancanze, con il bisogno di importare i beni di prima necessità che a Cuba non si trovano. Queste persone eseguono degli ordini, ma con un atteggiamento distante, vuoto; sembrano stranieri intenti a domandarci perché portiamo quel che portiamo nel paese in cui siamo cresciuti insieme carichi di necessità oggettive.
Che cosa direbbe Rousseau il Doganiere che, essendo lui stesso un artista straordinario, ebbe un posto come ispettore delle merci di frontiera a Parigi (da cui il suo soprannome douanier), e nella sua valigia fece entrare in quegli anni tanta pittura da dare una mano a completare la tavolozza a tutta la sua generazione, quella che ne poteva comprare ben poca da impiegare nei quadri che sono oggi gioielli universali.
Che cosa ho portato? Un enorme catalogo generale del Museo d’Orsay, un altro sull’impressionismo astratto, quello con la retrospettiva dell’opera di Inés Tolentino che lei mi ha regalato. La poesia completa di José Triana (con dedica dell’autore de La noche de los asesinos), un grosso dizionario francese-spagnolo.Ho portato creme, profumi e spezie, incensi, una lampada a olio per scacciare le zanzare quest’estate. Ho portato medicine per lo stomaco, per l’influenza, le allergie, i dolori, la nausea; molti medicinali per ripartire e sopportare l’estate lontano da Parigi, varietà di tè, olio d’oliva, una bottiglia di vino rosso, taccuini per gli appunti, i miei dolci preferiti e colorati de La Durée (casa fondata nel 1862); matite, penne, scarpe e vestiti, costumi da bagno, una cartuccia di inchiostro per la mia vecchia stampante, biancheria intima, indumenti pesanti, un piccolo paiolo, una caffettiera nuova, guarnizioni per il mio frigorifero, libri di diversi autori della mia generazione, quelli che qui non trovo e che si prestano all’infinito. Ho portato un cestino per il cucito, una borsa dell’acqua calda, l’apparecchio per misurare la pressione e alcuni quaderni a righe. Due disegni che ho comprato a un giovanissimo pittore di strada che disegnava ricurvo a 13 Rue du Four. Due dischi di magnifiche versioni delle Sonate di Scarlatti. Smacchiatori, lucido da scarpe neutro e alcune goccette per disinfettare l’acqua. Fortuna che non ho portato l’originale di William Navarrete, lui ha insistito e aveva ragione, ora l’avrebbero letto domandandosi perché un collega porta l’originale dell’altro. Il mio asciugacapelli, il mio shampoo. Questi sono gli oggetti che raccontano le vicissitudini della mia quotidianità, la stessa necessità collettiva di avere e offrire tutto ciò di cui c’è bisogno agli amici, oggetti che viaggiano ancorati al fondo della valigia per prolungare il confortante tempo della creatività su quest’isola che amo e difendo come poche cose nella mia vita, quest’isola che tratteggio a bordo dell’aereo, idilliaco pezzo di terra che di colpo mi viene strappato dalla confisca della frontiera. La colpa è di tutti quando non c’è niente e tu ti lasci privare di ciò che hai portato, è un problema di tutti ma, quando aprono la tua valigia, i doganieri si comportano come fossero degli svedesi sbigottiti.
«Che cosa portano gli artisti? Ma che si credono questi artisti? Chi pensano di essere per portarsi tutte queste cose? Perché non si cercano uno specialista che li capisca, che sappiano perché portano funi, parole stampate, indumenti pesanti, colori e compresse per combattere la nevrosi che crea ogni cosa, questa crisi che ti attende al tuo arrivo, qualcuno che ci capisca qualcosa di questi strumenti e di questi aggeggi per creare che nemmeno loro conoscono.»
Guardo le valige, mi fermo, di certo alcune di queste cose ci sono anche qui o a un certo punto si potranno procurare, ma la mia ossessione di non restare senza qualcosa di indispensabile mi fa portare tutto. Ho pagato un supplemento per il peso e qui lo dovrò ripagare.
«Non hai portato elettrodomestici o un DVD, un disco rigido, un cellulare da vendere?»
Non ho portato altro che quello che mi permette di rimanere qui e ora, a creare, a cercare il prossimo motivo per non andarmene da un luogo in cui faccio tutto il possibile per sentirmi bene.
Questo è il paese ideale per lavorare, qui il tempo ha altre caratteristiche, un altro peso, il clima e la luce ti stimolano a concepire idee incredibili. È importante che le cose si rimettano al loro posto.
Nella valigia di Cuba c’è tutta la mia vita. Chiudete tutto e lasciatemi passare che qui dentro viaggia la mia anima.

traduzione di Silvia Bertoli.



giovedì 13 giugno 2013

Cubareale Sito

ALEJANDRO ARMENGOL. REPRESSIONE E PANNOLINI.


9 giugno 2013
traduzione/adattamento e riduzione a cura di Yordan Fuentes De Arnaiz della redazione di Nuovacuba




Alejandro Armengol - El Nuevo Herald




Non ci dovrebbero essere illusioni su un rilassamento del controllo politico sotto il presidente Raul Castro. Il sistema cerca di seminare sconforto assieme alla paura. Gli argomenti possono non essere persuasivi e le risorse utilizzate sono caratterizzate dalla loro mancanza di originalità. La polizia però non è interessata a convincere, ma a persuadere e la mancanza di fantasia è una delle regole del mestiere.

Se a Cuba ci fosse un barlume di democrazia, da anni i fratelli Castro sarebbero stati rimossi dal potere. In primo luogo, perché inetti. Ripeterlo è banale, eppure la ripetizione non ci salva dallo stupore. 

Un rapporto divulgato sul sito digitale Havana Times fa sapere, almeno a quelli nell’esilio, che le madri cubane sono costrette a riutilizzare i pannolini usa e getta. 

“Quasi tutto il corredo per i neonati si acquista nei negozi per riscuotere valuta a un prezzo esorbitante se si considera che lo stipendio base è di 250 pesos (10 CUC)”, ha detto Mercedes González Amade. 

Mentre il bambino è piccolo, c’è la possibilità che i pannolini usa e getta possano essere acquistati, come riferisce Havana Times specificando che quando la taglia è piccola la confezione contiene da venti a trenta pannolini. Con l’aumento delle dimensioni, tuttavia aumenta anche il prezzo e diminuisce la qualità. Così le madri devono valersi dei pannolini già utilizzati, togliere l’imbottitura, lavando dopo il rimanente per poi stenderlo ad asciugare.

“Una volta asciutto, da dove è stato preso quella che è comunemente chiamata “trippa” (l’imbottitura), introduciamo due pannolini di stoffa piegati in quattro e, se per caso, il pezzo che aveva prima dell’adesivo perde il suo effetto, utilizziamo due spilli”, dice González Amade. 

Dover ricorrere a questa soluzione è tipico di una cultura della povertà, in cui la necessità richiede un adattamento della merce in base ad una situazione di miseria. Non c’è un “embargo imperialista” che giustifichi quest’uso. Qualsiasi pretesto ideologico è solo cinismo. Per decenni il regime cubano si aggrappò alla tesi del futuro per deviare qualsiasi sguardo critico al presente. Ora il tutto si riduce a un “si salvi chi può”. 

Se Fidel Castro proclamò che lo Stato si sarebbe preso carico di tutto, dalla formazione superiore fino alla produzione di gelato, quello che persiste ancora oggi è un completo disastro, nel quale convivono i campus universitari in province artificialmente costruite e anziani che vendono coni di arachidi, bambini che mendicano chiedendo qualcosa ai turisti – e più di un video caricato su Internet lo mostra –, e uomini e donne che sopravvivono con stipendi da fame. 

Quando è diventato troppo evidente che il governo cubano non era in grado di soddisfare le esigenze più elementari, non si optò per altra soluzione al riguardo se non di spostare il problema alla famiglia.  

Questa è, in ultima analisi, una delle “vittorie politiche” del regime negli ultimi anni: che i membri della famiglia, soprattutto quelli che vivono all’estero, si occupino della cura degli svantaggiati, in particolare i bambini e gli anziani. Non solo ha buttato giù per lo scarico l’uguaglianza e la vantata giustizia sociale sostenuta per anni, ma l’intero tessuto economico e sociale proprio di qualsiasi paese, dal sistema delle pensioni fino all’offerta di lavoro. 

La differenza per Cuba è che quelli hanno causato la distruzione si presentano ora come quelli in grado di rimediare il disastro, mediante concessioni date a contagocce e decreti legge veloci come tartarughe: il ruolo del governo nelle mani di persone che agiscono in qualità di riparatori di catini, aggiustatori di molleggi dei materassi e venditori di lattine. Con la particolarità che, a differenza di quelli che nel passato, vagando per le strade offrivano questi servizi da poveracci, oggi ci sono loro che si arricchiscono.  

È chiaro che per agire con l’impunità che tuttora dispiegano, l’inganno non basta: devono sopprimere i fatti e le denunce, favorire l’invidia e conservare l’abbandono. 

Il regime cambia le leggi e ordinamenti al fine di perpetuarsi. Tali cambiamenti sono fondamentali per aree della vita quotidiana. Ciò che un tempo era un delitto a Cuba, è ora consentito. Durante il governo di Fidel Castro si era imposta una politica di non essere guidati da una mentalità imprenditoriale, preoccupata per le prestazioni e i profitti, ma di trarre beneficio economico come conseguenza degli obiettivi politici. Raul Castro sembra essere il contrario: l’uomo che vuole “far funzionare le cose”. Solo che nessuno sa come ci riuscirà e l’efficienza continua a essere una frontiera e non una conquista. 


In sostanza però, la capacità o il diritto di esprimere un desiderio di cambiare alcune leggi, così come gli aspetti e le condizioni sociali, oppure la società e il governo nel suo insieme, continuano a essere soffocati a Cuba, come quando questa persecuzione portava le vesti della lotta di classe.

mercoledì 5 giugno 2013

Cubareale Sito


Il ritorno





YOANI SANCHEZ
La valigia appoggiata in un angolo, i piccoli regali che hanno viaggiato al suo interno adesso sono nelle mani di amici e parenti. Gli aneddoti, invece, verranno fuori con il tempo, perché sono così tanti che potrei passare il resto della vita ricordando singoli eventi. Sono già di ritorno. Appena arrivata ho avvertito subito la peculiarità di una Cuba che in tre mesi di assenza non è cambiata molto. Il gran numero di uniformi è la prima cosa che mi è saltata agli occhi: militari, doganieri, poliziotti… perché si vedono tanti uomini in divisa non appena atterriamo all’Aeroporto José Martí? Perché abbiamo l’impressione che ci siano pochi civili e molti soldati? Superate le luci opache dei saloni, sono stata accolta dalla domanda poco amabile di una presunta dottoressa che voleva sapere se fossi stata in Africa. Da dove vieni, figlia mia? Mi ha guardato storto, vedendo il passaporto azzurro con lo scudo della repubblica in copertina. 
Fuori, ero attesa da colleghi e familiari. L’abbraccio di mio figlio, il più atteso. Ho cercato subito di recuperare il mio spazio, immergendomi nel tempo singolare della nostra vita. Dovevo mettermi al corrente di storie ed eventi accaduti nel quartiere, ma anche nella città e nel Paese. Sono già di ritorno. Con una carica di energia che i problemi quotidiani potranno ridurre ma non mi toglieranno mai la forza per intraprendere nuovi progetti. Una tappa della mia vita finisce e un’altra sta per cominciare. Ho visto la solidarietà, l’ho toccata con mano e adesso ho il dovere di raccontare ai compatrioti dell’Isola che non siamo soli. Ho portato con me tanti bei ricordi: il mare di Lima, il Tempio Maggiore in Messico, la Torre della Libertà a Miami, la bellezza di Rio De Janeiro, l’affetto di tanti amici in Italia, Madrid con il Museo del Prado e la Fontana di Cibele, Amsterdam in mezzo ai canali, Stoccolma e i cyber attivisti di tutto il mondo che ho conosciuto, Berlino e i graffiti che coprono quel che resta del Muro che divise la Germania, Oslo immersa nel verde, New York che non dorme mai, Ginevra con i diplomatici e la sede ONU, Danzica intrisa di storia recente e la bellezza unica di Praga. Tutti luoghi che ho portato con me all’Avana, tra luci e ombre, problemi insoluti, momenti di svago e sorrisi. Sono già di ritorno e non sono la stessa persona. Qualcosa dei luoghi dove sono stata mi è rimasto dentro, anche gli abbracci e le parole di incoraggiamento oggi sono qui, insieme a me. 


Traduzione di Gordiano Lupi

Collegamento Internet: 1 ora 2,50 Pesos Covertibles



Cubareale Sito

A Cuba offerta pubblica di accesso
a Internet. 

Sotto vigilanza





Nell’isola non si accede al web dalle case. Previsti 118 Internet point a pagamento, ma resta la censura
CLAUDIO LEONARDI

L’accesso al web dalle case, a Cuba, è ancora privilegio di alcune categorie professionali, tra cui medici e giornalisti. Il governo ha però promesso di rendere attivi sull’isola, il 4 giugno, 118 internet point pubblici, per ampliare le opportunità di connessione a chi non possa sfruttare reti aziendali, scolastiche o situate in grandi alberghi.
Le noti dolenti arrivano sui costi del servizio. Lo stipendio medio dei cittadini cubani è di 20 dollari al mese. Si può quindi immaginare quanto possa pesare l’esborso di 4,5 dollari per collegarsi per un’ora a siti internazionali, cifra che scende a 0,6 dollari per chi voglia navigare solamente su siti nazionali. Una discrepanza che, in tutta onestà, sembra giustificata esclusivamente da una volontà di deterrenza e di allontanamento da fonti di informazione libere dal controllo del governo comunista cubano.
La consultazione della posta elettronica costerà, senza varianti, 1,50 dollari. 
Un’ora di connessione, tra l’altro, potrebbe permettere molto poco se la velocità della tecnologia a disposizione restasse quella finora messa a disposizione a Cuba. A gennaio, Etecsa, la Società di telecomunicazioni locale, ha annunciato di volere agganciarsi a un cavo a fibre ottiche sotto-mare proveniente dal Venezuela, che avrebbe fornito connessioni a internet ad alta velocità.
Nulla però cambierà nella politica di controllo sul web finora esercitata dalle autorità isolane. Etecsa, provvederà “immediatamente” a fermare l’accesso degli utenti se commetteranno “qualsiasi violazione delle norme di comportamento etico promosse dallo stato cubano”, ha precisato il Ministero delle Comunicazioni nel decreto governativo.

Scetticismo e critiche piovono dai dissidenti n patria e all’estero. In prima fila, la coraggiosa Yoani Sanchez, recentemente intervenuta a Perugia, al Festival del giornalismo. Sul suo account Twitter, la blogger cubana ha scritto che “ci vorrà del tempo per avere internet a casa, ma sono sicuro che arriverà... e questo farà male (al governo).”.