da : http://ilvecchioeilmare.blogspot.it/
di Gennaro Carotenuto
Dopo oltre mezzo secolo di fallimentare politica
d’isolamento, come ammette coraggiosamente Barack Obama, le relazioni tra Stati
Uniti e Cuba vivono questo 17 dicembre 2014 un nuovo storico inizio. “Per oltre
mezzo secolo abbiamo fatto la cosa sbagliata sperando che Cuba collassasse, ma
ciò non è accaduto”. Cuba non solo non è collassata ma, come solo gli
informatori onesti hanno raccontato, da oltre due lustri ha rotto l’isolamento
teso dalla superpotenza del Nord e incrudelito dopo la caduta del muro di
Berlino, rendendo quell’embargo inutile e antistorico.
Che piaccia o no, la Rivoluzione cubana è così sopravvissuta non solo
al fallimento del socialismo reale ma anche a quello del neoliberismo reale, le
atrocità del quale, la fame, la violenza, la dissoluzione di parti fondamentali
della convivenza civile date dallo stato sociale, sono state risparmiate in
questi decenni al popolo cubano. Il processo che inizia oggi con il
ristabilimento delle relazioni diplomatiche, e una lunga serie di misure che
comportano una significativa apertura reciproca tra i due paesi, compreso lo
scambio di prigionieri che mette fine alla vicenda dei cinque antiterroristi
cubani detenuti negli USA, e che prosegue con la battaglia parlamentale per
l’eliminazione di un embargo che negli USA è legge dello Stato, è stato reso
possibile da una serie di fattori.
Il primo è che la resistenza del popolo cubano in tutti
questi anni si è dimostrata essere non ideologica ma rispondente a precise
esigenze storiche nazionali. Che piaccia o no, – nonostante in particolare nei
primi anni Settanta abbia vissuto periodi opachi – Cuba non è mai stata il
gulag tropicale descritto dal modello disinformativo mainstream. In un paese
dove circolano liberamente milioni di stranieri non si sopravvive alla crudezza
del periodo speciale senza un consenso di massa, che non può essere basato
sulla repressione. Questa partita, che doveva concludersi con la capitolazione
dell’isola e la sua sottomissione al gigante del Nord, passa invece dal
riconoscimento della dignità e della sovranità di Cuba, qualcosa di elementare
che da Kennedy a Bush nessun presidente statunitense aveva mai pensato di fare.
Quello che muore definitivamente oggi è dunque l’emendamento
Platt, quell’articolo inserito dagli USA nella prima Costituzione dello stato
cubano dopo la fine del colonialismo spagnolo, che sanciva che l’indipendenza
di Cuba fosse condizionata agli interessi degli USA. Gli USA non hanno
riconosciuto le ragioni della Rivoluzione ma oggi si sono dovuti inchinare di
fronte alla dignità del popolo cubano che avevano sempre negato in 116 anni di
storia. Non dev’essere stato facile per Obama citare José Martí e ammettere che
«todos somos americanos» così come Raúl nel chiedere rispetto per Obama
comincia a smantellare una parte della retorica rivoluzionaria.
Ciò non significa né la risoluzione dei conflitti tra i due
paesi, né il declinare di differenze sostanziali su libertà individuali ed
economiche, sulla forma dello Stato e sul concetto di democrazia. In
quest’ambito, l’apertura necessaria per Cuba, un paese che continua a vivere in
situazione di notevole penuria, è appena all’inizio. Cuba, la Rivoluzione, la
società cubana saranno da domani chiamate ad accettare una sfida sulla quale è
impossibile fare pronostici: più interscambio economico e culturale, più
contatti, più rimesse, più facilità di spostamenti modificano oggettivamente la
situazione. Si amplierà un processo che, al di là delle dichiarazioni
modificherà nel profondo il modello socialista provando a salvare le conquiste
della Rivoluzione. Solo tra qualche anno sarà possibile capire in che direzione
e se il saldo sarà positivo. Molti – nei due campi, soprattutto da lontano –
possono cominciare a storcere la bocca fin d’ora. Potremmo costruire un
dizionario dei termini sui quali cubani e statunitensi non trovano un accordo,
da libertà a democrazia a diritti umani. Sapendo che nessuno ha l’esclusiva
sulla ragione e sulla verità, da domani potranno finalmente dialogarne.
TODO CAMBIA
Tutto ciò accade in un momento storico nel quale gli USA
devono prendere atto che il loro ruolo del mondo e nel Continente è quello di
una grande potenza non più onnipotente. Le strutture regionali, da Unasur al
Mercosur, hanno oscurato negli ultimi anni la primazia degli USA e il ruolo
della OEA. In ogni sede Cuba può contare sull’appoggio di tutti i paesi più
importanti della regione, a partire dal Brasile. Prima Hugo Chávez, poi tutti
gli altri leader integrazionisti latinoamericani, da Lula a Correa, da Evo a
Kirchner a Mujíca, avevano riconosciuto a Fidel Castro e alla Rivoluzione
cubana una primogenitura morale che si può ritrovare nella storia delle
generazioni che hanno lottato e perduto contro dittature e regimi neoliberali,
per vedere riconosciute le loro ragioni solo in questo scorcio di XXI secolo.
Un altro attore diplomatico va citato in questa vicenda. Nel
1998 il viaggio a Cuba di Karol Wojtyla era stato il primo segnale della fine
dell’isolamento; Joseph Ratzinger aveva risolto ogni conflitto tra Santa Sede e
Cuba; Jorge Bergoglio ha riportato la diplomazia vaticana ad un ruolo centrale
nella regione. Paradossalmente la debolezza dell’anatra zoppa Obama ha fatto il
resto, rendendo possibile quanto aveva cominciato a preparare già dal 2006 l’ex
ministro degli esteri cubano Felipe Pérez Roque, che, forse per il passo
eccessivamente veloce, ci rimise la carriera. Per quanto difficile possa essere
ora la battaglia parlamentare negli USA per la cancellazione dell’embargo, il
cammino appare segnato. Comincia un dialogo difficile ma basato sul
riconoscimento dell’altro e della differenza, basato sul rispetto della
reciproca sovranità e autodeterminazione. Nostalgici della guerra fredda
astenersi.