18 maggio 2013
di Yordan Fuentes De Arnaiz della redazione di
Nuovacuba
"L’errore sta tutto nel non fatto,
sta nella diffidenza che tentenna."
Ezra Pound. Canti Pisani
Diffidenza
La nostra amica O era per noi la infiltrata. Non
ricordo nemmeno come l’avevamo conosciuta. Il nostro primo incontro è coperto
dalla nebbia della dimenticanza. So solo che, a un certo punto della nostra
storia lei era lì, tra di noi come una piccola pietra nell’impasto di un dolce.
Lei era troppo scomoda e non del tutto amalgamata. Eravamo un gruppetto di
ragazzi universitari che si trovava a discutere e a studiare assieme. Due cose
strane in quegli anni in cui ormai prevaleva il forte individualismo del “si
salvi chi può”. Da un certo punto di vista, se ci penso, siamo stati graziati.
Ci vedevamo molto spesso e andavamo assieme alla Biblioteca Nazionale, un
viaggio fatto tutto rigorosamente a piedi. Fortunatamente da casa nostra non
era molto lontano e il sabato mattina sul presto ci catapultavamo in biblioteca
per sfuggire al caldo. Il tutto poteva funzionare in questo modo, prendevamo un
tema d’interesse: “postmodernismo e realismo magico”, “i poeti maledetti
francesi” e ci buttavamo di capofitto a studiare. Ognuno si occupava di un
argomento e dopo la giornata di studio era messo in comune. Avevamo una
sconfinata curiosità. Gli indirizzi di studio erano diversi ma ci accomunava
quella fame di sapere. Eravamo famelici e tra quelle mura si dovevano
nascondere mille tesori che la censura e la scarsità di risorse per lo studio
non ci facevano trovare facilmente. Era proprio questa nostra eccentricità poco
tropicale a renderci attraenti. Da una parte eravamo affettivamente e
intellettualmente molto legati e dall’altra eravamo spalancati verso l’esterno.
Sembrava quasi che l’intero universo potesse stare dentro la nostra amicizia.
Ogni volta che scoprivamo qualcosa di nuovo, tornavamo bambini che dicevano al
mondo: “Guarda questo, che bello!” ma con O non ci era successo così.
O era comparsa… materializzata dal niente. Lei era
parecchio più grande, un po’ bipolare e schizzata. D’altronde eravamo nel bel
mezzo del Periodo Speciale e tutti eravamo leggermente impazziti. Chiunque nel
mondo occidentale, con meno di quattro ore di elettricità giornaliera e
nell’ipotesi migliore un pasto costituito da un pugno di riso bollito e una
banana, finirebbe nel manicomio. Noi no, eravamo già abituati alle ristrettezze
da anni, eravamo soltanto magri e schizzati.
Per O, tuttavia, il suo peccato originale era la sua storia, il suo
lavoro, la sua famiglia e non quell’aria da femme fatale e i suoi scatti
isterici. Non la sigaretta perenne tra le dita e quella criniera da leonessa da
strapazzo. O lavorava in una “Corporación” e abitava dai suoi in un
appartamentino carino nel Vedado. Aveva vissuto da ragazza per un periodo
nell’ex-URSS e parlava alla perfezione il russo. I suoi genitori già pensionati
avevano avuto degli incarichi governativi non meglio specificati. La colpa più
ovvia che la incriminava ci è pervenuta dalle sue labbra, quando ci ha detto in
modo innocente: – vi ricordate la lettera famosa* in cui il Che saluta Fidel
dicendo “mi ricordo in quest’ora di molte cose, di quando ti ho conosciuto in
casa di Maria Antonia, di quando mi hai proposto di venire…”, beh quella Maria
Antonia che ha favorito l’incontro in Messico era mia zia. Quella era stata per
noi la sua confessione e allo stesso tempo la sua condanna.
O era mirabolante a tratti e dire certe cose era il
suo modo di rendersi interessante. Magari vaneggiare era la via che aveva
trovato per sfuggire alla solitudine, che le restava attaccata con la stessa
perseveranza di una cozza alle rocce. Noi invece, con la medesima insistenza
durevole eravamo stati allevati alla diffidenza. Eravamo cresciuti indossando
sin da subito la maschera nell’ambiente pubblico. Sussisteva dunque questo
fenomeno allargato nella popolazione, una frattura sempre più larga tra quello
che si pensa realmente e quello che poi si faceva e dichiarava nell’ambiente
sociale. Là dove per forza di cose dovevi essere allineato, omologato e di un
irreprensibile grigiore. La delazione era una realtà tangibile e più di uno era
stato espulso dall’università per aver dimostrato una diversità di vedute
politiche. Noi invece in quel caos disumano avevamo trovato un rarissimo spazio
di libertà. La curiosità di O e la sua simpatia inspiegabile ci destavano il
più intenso sospetto. Per noi dunque non era mai stata respinta del tutto, ma
mai accolta. L’ambiguità di quel rapporto era dovuta alla convinzione
impiantata nell’ipotalamo: lei era l’infiltrata, era la spia, l’inviata. Noi
non avevamo niente da nascondere, ma il sentimento di conservazione era più
forte dell’essere ragionevole. Cosa ci faceva poi lì, tra di noi lei che era
così diversa, che c’era in fondo così estranea?
Il regime ci aveva buttati nella solitudine. Con
questo presupposto ora capisco il suo interesse. Scoprire un gruppo di amici
che si trovavano regolarmente per fare assieme qualcosa di utile, in modo
spontaneo, senza un evidente tornaconto e per la passione del bello era
(immagino) per gli occhi di chiunque il più desiderabile spettacolo. Noi, tuttavia con O eravamo doppiamente
chiusi. Chiusi nel preconcetto che non ci lasciava conoscerla e chiusi per la
paura che quello che amavamo ci fosse strappato.
Chi era O? Beh, non ho mai saputo rispondere.
- Nota
come la lettera di addio di Ernesto Guevara a Fidel Castro scritta
all’Habana il 1° aprile 1965.
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