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ALEJANDRO ARMENGOL. L’ETERNITÀ DEL CAMBIAMENTO
23 aprile 2013
traduzione/adattamento e riduzione a cura di Yordan Fuentes
De Arnaiz della redazione di Nuovacuba
Alejandro Armengol.
CUBAENCUENTRO
Il problema fondamentale che affronta il governo cubano, con
la necessità di attuare riforme per alleviare la difficile situazione del
paese, è la risposta a questa domanda: può permettersi l’attività privata,
anche solo su scala ridotta, senza compromettere il socialismo?
La risposta marxista-leninista a questa domanda è negativa:
la piccola proprietà commerciale genera il capitalismo, costantemente e senza
fermarsi.
Una risposta troppo semplice, soprattutto a proposito della
situazione attuale del paese, dal momento che non possono essere evitate altre
due domande. La prima è se c’è davvero il socialismo nell’isola e la seconda ha
un’urgenza crescente: cosa possiamo fare per fermare questa crisi perenne, con
la minaccia latente di uno sconvolgimento sociale?
Da diversi anni persistono a Cuba due modelli economici: un
basato sui mezzi di produzione dello stato e il secondo che si fonda sulla
proprietà privata. Parlare di socialismo ha i suoi limiti, soprattutto in senso
economico. Non si può risolvere il problema con un’affermazione drastica: dire
che sull’isola non c’è socialismo, se mai è esistito, e che quello che c’è è
semplicemente un capitalismo di Stato, o più semplicemente un regime
totalitario mercantilista o addirittura una sorta di sultanato caraibico.
Se un’argomentazione di questo tipo può essere appropriata
per alcuni aspetti del dibattito politico, se si tiene conto dei modelli di
produzione, delle forme di distribuzione di beni e servizi, del lavoro e dei
processi di vendita all’ingrosso e al dettaglio, per citarne solo alcuni
aspetti – occorre riconoscere che esiste nel paese una enorme struttura
economica socialista stagnante e inutile. Che sopravvive perché esercita una
sorta di fagocitosi su altro nucleo di affari, che obbedisce alle leggi del
capitalismo selvaggio, e perché attua dei meccanismi di rendite e anche
parassitari, sostenuti da ricavi provenienti da alleati e da presunti contrari
o ex nemici: i sussidi “chavisti” e le rimesse degli esuli.
Con una fortuna relativa, il regime dell’Avana è riuscito a tenere
separate le due sfere produttive, grazie ad una strategia volta a ridurre sia
la sfera della produzione privata nazionale, sia a concentrare gli investimenti
stranieri – e le joint venture con capitali privati (esteri ) – in un numero limitato di aziende.
Questa soluzione, tuttavia, ha portato all’indebolimento
sociale ed economico di controllo del governo.
Quando si parla della situazione attuale dell’isola,
dobbiamo riconoscere che nel paese i cambiamenti hanno avuto luogo. Tutti
questi però non sono stati guidati dal governo. Alcuni sono stati spontanei ma
consentiti, molti si sono sviluppati come risposta a diverse pressioni.
Un altro è quello di consentire, dentro certi modelli, la
formulazione di critiche e pareri a favore, per l’appunto, delle “riforme”.
Il terzo e non meno importante, è il tentativo limitato di
restringere ancora la sfera burocratica nazionale.
In quest’ultimo si trova una contraddizione fondamentale.
Cuba la sta affrontando e per la medesima è passata l’ex Unione Sovietica e i
paesi dell’Europa orientale, prima che sparisse in loro socialismo.
Mentre il settore privato cresce in modo “spontaneo” e al di
là del previsto quando si permette la minor riforma, la burocrazia che è anche
risultato spontaneo e naturale dell’economia socialista aumenta nonostante gli
sforzi per ridurla.
In pratica sono due modelli di sopravvivenza che concorrono.
Le economie socialiste classiche, pre-riformiste combinano la proprietà statale
con un coordinamento burocratico, mentre le economie capitaliste classiche
combinano la proprietà privata con il coordinamento del mercato.
Uno degli aspetti negativi della miscela di entrambi i
sistemi nella stessa nazione, è l’aumento dello spreco delle risorse.
Mentre il settore privato vive costantemente minacciato in
un sistema socialista, trae beneficio da un relativo aumento dei redditi.
Questo perché può facilmente soddisfare le esigenze che non sono coperte dal
settore statale.
Tuttavia, questi artigiani e ristoratori non hanno alcun
interesse nel dedicarsi ai loro clienti e nemmeno nell’accumulare ricchezze e
nel dare loro un uso produttivo.
Poiché l’esistenza prolungata delle aziende è piuttosto
incerta, la maggioranza usa il loro reddito per un miglioramento del loro
tenore di vita attraverso il consumo eccessivo.
Quest’atteggiamento non differisce da quello del burocrate,
che sa che i privilegi e l’accesso a beni e servizi scarsi dipendono dal suo
incarico.
Questo problema affronta l’attuale governo cubano, nel
tentativo di ricercare una maggiore efficienza nell’economia nazionale: come
incoraggiare e allo stesso tempo limitare il settore formato dai lavoratori
autonomi, proprietari terrieri e i possessori d’imprese familiari come i
“paladares*”?
Sia il limitato settore privato, sia il settore statale di
grandi dimensioni, sono nelle mani di persone che cospirano contro l’efficienza
per ragioni di sopravvivenza.
La fragilità del “socialismo di mercato” è che il settore
privato, anche se è in parte regolato dal mercato, in uguale o maggior misura
ubbidisce al controllo burocratico.
Questo controllo burocratico esegue molte delle sue
decisioni in conformità a fattori extraeconomici: in primo luogo politici e
ideologici. La contraddizione diventa stagnante.
Una parziale soluzione a questo dilemma potrebbe essere
quella di aumentare il ruolo del mercato, e dare più spazio alla sfera
economica privata, legalmente e lasciando la strada aperta alla concorrenza e
l’iniziativa individuale. Solo che di conseguenza, il successo nel mercato
varrebbe di più che la burocrazia, e moltiplicherebbe la perdita del potere
statale.
Questo è quello che alcuni sull’isola temono e altri
bramano.
Al ritmo in cui il presidente Raul Castro sta guidando i
cambiamenti, necessiterebbe vivere cento anni per realizzare una trasformazione
a Cuba, e in quel caso limitata soltanto al miglioramento del tenore di vita
dei cittadini. Eppure, questa riforma sarebbe racchiusa entro i parametri
indicati dalla necessità intrinseca al regime di mantenere la ristrettezza e la
corruzione, come forme di controllo. Sono proprio la repressione, la scarsità e
la corruzione, i tre pilastri che sostengono il governo cubano.
Mentre il regime dell’Avana continua a richiedere un
atteggiamento di accettazione assoluta e incondizionata, il che non è altro che
aprire la porta a opportunisti di ogni genere, si aggrappa a un concetto
medievale di tempo: confondere il presente con l’eternità.
Ci sono due atteggiamenti che sembrano determinare il
comportamento dei responsabili del governo nell’isola. Il primo è un desiderio
sfrenato di guadagnare tempo per rimanere al potere per quel che gli rimane da
vivere. È in quest’atteggiamento anche il suo inverso: sopravvivere alla morte
naturale di Fidel Castro e di suo fratello. E da quel momento stabilire
partenariati di ogni genere – che non escludono la parte della comunità
nell’esilio – e di partecipare all’interno della nuova élite al potere.
L’altro atteggiamento sembra essere il riflesso di una
grande paura di muovere la minima cosa, per paura che traballi tutto intorno.
Una specie di effetto farfalla insulare.
Il generale Raul Castro sembra di essere interessato a
conseguire una maggiore efficienza per l’economia. Sia il settore privato
limitato come quello grande dell’economia dello stato, tuttavia sono in mano a
persone che cospirano contro questa efficienza, per ragioni di sopravvivenza.
Più e più volte hanno chiesto ai cubani “lavoro” e
“pazienza”. Lavorare di più è stato sempre uno scherzo condiviso, una specie di
beffa tra i fratelli Castro e il popolo dell’isola. La pazienza, però, è
qualcosa di più serio. Fa parte dell’eternità imposta in una data: primo
gennaio 1959. Essi, i Castro, quelli di allora, sono sempre gli stessi.
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