16 Agosto 2014
È arrivato luglio, e con esso, la trasparenza dell’estate,
la luce di Cuba riproduce con nitidezza tutte le immagini che ho custodito in
silenzio.
Il colore del calore, il sole che ondeggia sul paesaggio
fino a deformarlo nella sua calura, fino a che poi l’ombrello del cielo si
rompe infradiciandoci in piena strada… ed ecco il plotone di ragazzi, a
navigare su chivichanas d’argento, a far mulinelli con le ciabatte nel fiume
del marciapiede… eccitati ancora una volta dal primo temporale di luglio e
dalla Conga di un Carnevale perso nella memoria. Anche se non ci sei, il mio
corpo rammenta il sapore del mango sulla tua bocca che assaggia il tropico
acerbo, iodato e dolciastro, all’imbrunire lo scontro con un arcobaleno
salmastro che a furia di spintoni ti fa uscire dal mare, perché i lampi e la
bocca tagliuzzata, le dita rattrappite, i tremiti, la fame e la sete annunciano
che sta scendendo la notte; a casa ti stanno aspettando o no… ma è tardi…
bisogna uscire dall’acqua. È la luce eterna dell’estate la responsabile di
questa vivida confusione di eternità che vive nel mio corpo.
Io ero la bambina dei brutti voti, dei ripassi, degli
straordinari e dei sussulti per arrivare “a stento” a essere promossa in questi
stessi primi giorni di luglio.
Poi quei celebri sorteggi di giocattoli (básico, no básico y
dirigido) e in seguito il congedo dagli amici che si sparpagliavano per tutta
l’isola a trascorrere le vacanze con la famiglia dispersa all’interno o nella
capitale.
Gli stessi giocattoli, il caso di quella apparente lotteria
fortuita, dividevano i bambini in classi e caste sociali. Quei figli di
ministri o segretari, militari, funzionari o agenti segreti, che si stabilivano
per tutto l’anno a Varadero, e perfino alcuni privilegiati figli di re
socialisti (?) che uscivano da Cuba in vacanza per tornare a raccontarci come
era il mondo fuori a 9 anni. Con quale permesso, quale denaro? Non lo seppi
mai.
Al rientro da queste estati sì che smettevamo di essere
uguali. Nel bel mezzo di tutte le crisi cubane spuntavano gli zainetti
colorati, le biciclette dorate, i jeans, le calcolatrici moderne, le penne e i
pastelli a cera, le gomme da cancellare profumate alla frutta, i cestini della
merenda con prosciutto e bibite doppie e persino le fantastiche avventure di
oltremare iniziavano, poco a poco, a dividerci per classe e importanza sociale.
Allo stesso tempo i nostri leader e i cartelloni pubblicitari che li
raffiguravano insistevano nel dire che qui TUTTI eravamo UGUALI.
Queste menzogne e questi atteggiamenti duri riempirono di un
odio controllato e silenzioso diverse generazioni aperte alla lotta. Costrette
a segmentarsi. Atti di ripudio, morti, separazioni, scontri, fucilazioni,
annegamenti, urla, rabbia e insulti coprirono di piaghe le nostre storie
personali. Ad alcuni non fu permesso tornare, ad altri non fu permesso partire.
Il mondo intero è stato testimone del nostro spettacolo
internazionale di odio cubano, e dalle loro differenti tribune, siamo stati
identificati come gli eterni fratelli-nemici.
Durante la mia infanzia “essere diverso” era un marchio,
desiderare che i tuoi figli vivessero un’altra realtà un tradimento alla
patria. Chi determinava nella nostra infanzia il concetto di patria? Era o è
TUTTA la patria uno stesso governo? Patria è qualcosa in più.
La fine della scuola (a luglio) rappresentava anche la fine
degli affetti, perché a settembre forse quel (la) nostro (a) amichetto (a)
sarebbe stato (a) iscritto (a) a un’altra scuola al di fuori delle acque
territoriali… e noi ci perdevamo 20 o 30 anni delle nostre vite. In quegli
anni, a causa di un decreto muto ma ben noto, non era possibile avere alcun
contatto con loro, quelli che oggi chiamiamo gusanos, perché la loro ideologia
disertrice avrebbe potuto contagiarti e portarti dalla parte del NEMICO. Ci
fecero credere che stavamo resistendo in un luogo assediato e che qualunque
passo o movimento al di fuori da esso avrebbe potuto condannare un popolo
intero. Un atto di affetto si trasformava in un atto di morte collettiva. Così
siamo stati cresciuti, formati, educati o istruiti.
I nostri compromessi ci hanno trasformato in una generazione
che odia i compromessi. Siamo stanchi di legami imposti. Più di ogni cosa
perché questo compromesso non lo abbiamo stabilito noi, ma i nostri genitori e
i nostri nonni.
Quella Cuba di giocattoli ci si è disciolta davanti agli
occhi, luglio dopo luglio chi ha avuto l’opportunità di partire definitivamente
ci ha abbandonato, e lontano da qui i nostri coetanei hanno ricostruito le loro
vite, le loro famiglie, i loro destini.
In questa foto due bambini (di sangue cubano) nati fuori
dall’isola si donano un po’ d’amore. Il loro essere cubano viaggia
nell’universo sentimentale che li ha uniti, un nido estetico, filiale,
sensoriale, genetico che li ha fatti rincontrare… il loro legame non è un
ostacolo, è un attributo referenziale, un punto di partenza. Questa bambina con
i bigodini ignora (per fortuna) che (per alcuni), durante la mia infanzia,
poteva essere vista come un nemico.
Loro lo ignorano, perché nonostante tutto il dolore, il
tempo cancella i rancori e i malintesi. Questo bambino che la bacia teneramente
infonde candore, è l’espressione di Pace e Amore di cui tanto abbiamo bisogno
da quella prima estate della mia vita. Non c’è miglior cura di questo bacio.
Oggi ricevo con emozione la foto scattata da Luis Soler, in
cui il suo figlioletto bacia una sua amichetta, e vedo chiaramente che l’odio e
la separazione sono l’antonimo che riunisce questa nuova generazione di piccoli
cubani che anziché addio e arrivederci possono dire sto qui con te, per sempre
uniti nelle nostre differenze; si baciano, si vogliono, si ritrovano per
placare insieme le piogge che un giorno separarono me da Luis.
Questa è per me la fotografia di questa estate 2014. Questi
sono, lo so, gli anni decisivi per la fine dell’odio.
Wendy Guerra
(Habáname, 1° luglio 2014)
Traduzione di Silvia Bertoli
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